Bici sociale. La bicicletta per creare comunità
In un mondo dove malattie derivanti da stress e solitudine sono sempre più frequenti, la bici può diventare incredibile strumento di socialità.
Il poeta Erick Pohlhammer sostiene che la nevrosi moderna deriva in gran parte dell’incapsulamento. Spesso il lavoro d’ufficio, gli schermi della TV e del cellulare, e persino l’automobile ci obbligano a vivere incapsulati, isolati dagli altri.
E scegliere di passare dall’auto alla bicicletta, esporsi all’aria, alle intemperie, al mondo, può essere un primo passo per uscire da questa condizione.
Andare in bici, come una pratica Zen, ci permette di dimenticarci per un momento di noi stessi, di uscire da noi e ci rende persone migliori.
Lo avrai notato anche tu: le persone, quando sono al volante sono solitamente nervose e imprecano più facilmente.
Guidare, specie nel traffico cittadino, può essere molto stressante e chiusi in auto, abbiamo la stessa anonima di internet per cui spesso diamo il peggio di noi.
L’auto è la rappresentazione del potere della minoranza rumorosa che impone le proprie regole su tutti gli altri.
Le presone che per la maggior parte del tempo guidano l’auto non per caso sono maschi, tendenzialmente benestanti, tendenzialmente giovani.
Al contrario, la bici è una “calamìta di buone persone“.
(La trovo una bellissima definizione, ma non ricordo dove l’ho letta, e se lo sai tu, ti prego di aiutarmi scrivendolo nei commenti).
In bici c’è più essere umano e meno tecnologia. In auto è l’inverso.
In bici tutto il corpo è esposto e si è più pronti all’interazione.
La bicicletta è modo semplice per riorganizzare la società in modo radicale, perché in bicicletta si può negoziare e può essere uno strumento per creare società più unite e solide.
La metafora del corpo e della macchina
Nei miei studi di Linguistica e di Letteratura, ho imparato che il linguaggio è performativo e le parole creano la realtà.
L’urbanistica è nata partendo dalla metafora di città come organismo meccanizzato (il “cuore della città”, le strade come “arterie di traffico”), e dall’assunto che il tempo di trasporto del singolo spostamento fosse da minimizzare, secondo una logica egoistica del proprio utile economico.
Se le arterie si ostruiscono e rallentano il “flusso” del traffico, il corpo sociale muore.
Il traffico è diventato quindi il principale problema da combattere nelle città.
In questa visione di realtà, non c’è spazio per la negoziazione. Regole imposte dall’alto evitano i conflitti attraverso, per esempio, l’uso di semafori.
Velocità è la meta da raggiungere, tutto il lento, tutto l’umano va marginalizzato, tolto dalla strada, a favore della “macchina”.
La città diventa un apparato funzionale, di cui l’essere umano è un semplice caratteristica.
L’umanità della bicicletta
Con la bicicletta invece c’è meno bisogno di regole, perché c’è più tempo e più facilità per la mediazione.
La strada può essere vista come lo spazio per le auto che pedoni e ciclisti devono attraversare, oppure spazio per persone che le auto devono attraversare.
Per esemplificare questo concetto, Marco Te Brömmelstroet mostra nelle sue lezioni questa foto.
Partecipa all’esperimento anche tu: che cosa vedi nella foto?
Il Cycling Professor, come si fa chiamare, sostiene che noi siamo portati a descrivere la foto come “cervo che attraversa la strada”, quando un modo più preciso di vedere l’immagine è “strada che attraversa il bosco”.
Cioè non è il cervo l’elemento anomalo, ma è la strada che è stata costruita nell’habitat del cervo.
Autoegoismo e socialità ciclabile
Prendiamo ora un’altra foto: la figura intera di una persona in bicicletta e confrontiamola con quella di una persona in auto.
In bici c’è più umano e meno tecnologia. Specialmente con le city bike in cui si pedala in posizione eretta e l’apertura al mondo è massima.
In auto è il contrario. L’elemento umano è poco visibile rinchiuso in un esoscheletro tecnologico, una corazza metallica che lo protegge e lo isola.
In bici tutto il corpo è attivo, tutti i sensi in uso e si è più pronti all’interazione.
Le auto a guida autonoma non solo non risolverebbero il problema dell’inquinamento e men che meno quello del traffico, ma ci sarebbe ancora meno spazio per negoziazione e contatto sociale.
Saremmo ancora più incapsulati e isolati dagli altri e dal mondo.
Quando più persone vanno in bicicletta si crea una coreografia con gli altri utenti della strada dove non servono regole ma c’è una costante contrattazione su chi debba occupare quale spazio.
L’esposizione all’altro, secondo i sociologi, porta a un senso di comunità, a un maggior senso di appartenenza, a una maggior partecipazione civile, al pensiero di poter influire sugli altri, a un senso di appagamento, a una connessione emotiva ai luoghi e alle persone e a una maggior fiducia.
Si presta meno attenzione al sé e si crea un maggiore senso comunitario.
Vivere la città chiuso in un abitacolo può portare all’opposto, al pregiudizio, alla diffidenza.
Un mondo costruito intorno a esseri umani chiusi in involucri di acciaio, porta a una società in cui ci si fida di meno, a egoisimi e ineguaglianze.
La velocità giusta
E cosa dire della velocità?
Oltre ad essere la principale causa di incidentalità e di mortalità sulle strade, l’alta velocità è un fattore critico nel rendere socialmente distruttiva la nostra mobilità.
Alla velocità della bicicletta, alla velocità di una city bike si costruiscono invece relazioni sociali.
La bicicletta è l’antidoto all’individualismo esasperato della società occidentale moderna.
E più aiutare a ridare vita e vivacità a paesi in declino e ai centri storici delle città, sostenendone tra l’altro le attività commerciali.