La multidisciplinarietà nel ciclismo moderno
Differenziare l’allenamento per essere il prossimo Mathieu van der Poel
Migliaia di ragazzini si avvicinano al ciclismo sportivo in questi anni attratti dalle gesta e dalle personalità esuberanti di un Peter Sagan o di un Mathieu van der Poel.
Ma uno dei segreti di questi grandi campioni è la differenziazione del loro allenamento grazie alla multidisciplinarietà.
Lasciamo la parola al trainer e direttore sportivo di mountain bike Stefano La Sala che fa un excursus storico della multidisciplinarietà nel ciclismo e ci spiega perché è così importante da implementare.
La multidisclinarietà è rimasta a scuola
La parola d’ordine nel ciclismo moderno è multidisciplinarietà. Un termine in realtà usato ed abusato da diversi decenni.
Ho iniziato a studiare da Direttore Sportivo nel 1994 e ricordo che già negli anni ’90, anni in cui esplose a livello mondiale il fenomeno della Mountain Bike, si parlava con insistenza della necessità di differenziare la pratica ciclistica implementandola con attività alternative sia dello stesso ambito (MTB, ciclocross, ciclismo su pista), sia sconfinando in altri sport quali running, pattinaggio, sci, etc.
Molto presto ho però capito che la multidisciplinarietà restava confinata nei discorsi didattici o al più riguardava l’iniziativa del singolo atleta.
Eppure gli esempi non mancavano, sebbene si trattasse in prevalenza di ex professionisti su strada che si cimentavano in MTB. Restando in Italia mi vengono in mente Paolo Rosola, Gianbattista Baronchelli e Mario Noris fra gli uomini e Maria Canins fra le donne.
In ambito internazionale John Tomac lasciò la famosa squadra professionistica Motorola per diventare la più grande icona mondiale della MTB.
Purtroppo, mentre la multidisciplinarietà acquistava nel mondo sempre più importanza, in Italia tutto restava sul piano teorico. Molti Direttori Sportivi, Team Manager, Dirigenti ed atleti stessi sono rimasti confinati nello scetticismo culturale ed hanno contribuito non poco alla diffida della pratica di altre discipline senza mai considerare la possibilità di crescita sotto aspetti tattici, tecnici, ma anche di natura fisiologica, neuromotoria o cardiovascolare.
La multidisciplinaerità non è esclusiva degli ultimi anni
Andando a studiare il ciclismo del passato, credo si sia persa addirittura una memoria storica che invece ci dimostra come già Fausto Coppi negli anni ’40 e ’50 praticasse assiduamente il ciclismo su pista nella specialità dell’inseguimento individuale.
Qualcuno potrà dire “altri tempi” ma molti dimenticano che, in tempi più recenti, Felice Gimondi partecipava alle sei giorni su pista ed il suo acerrimo rivale Eddy Merckx faceva ancora di più aggiungendo all’attività su strada non solo la pista ma anche il ciclocross!
Lo stesso fece negli anni ’80 Bernard Hinault (vincitore di cinque Tour de France), praticando strada, pista e ciclocross. Anche i due Italiani più famosi di quel periodo, Francesco Moser e Beppe Saronni affiancarono l’attività su pista dell’inseguimento individuale agli impegni su strada. Moser addirittura si cimentò con successo nella specialità dell’Ora nella quale divenne detentore del record nel 1984 a Città del Messico. Un record che resistette per ben undici anni.
Il cambiamento culturale
Solo nei primi anni 2000 abbiamo iniziato a registrare alcune prestazioni di rilievo da parte di atleti abituati a cimentarsi in diverse discipline.
Probabilmente è stata una donna la pioniera del cambiamento culturale. Mi riferisco a Giorgia Bronzini che, dai successi in Mountain Bike, ha centrato una carriera di tutto rispetto sia su strada che su pista. Seguita a ruota da Dario Cioni che, da vice campione del mondo MTB ed atleta della nazionale di ciclocross, ha ottenuto successi importanti nel professionismo su strada.
Il percorso inverso è stato invece compiuto da due stradisti di spessore internazionale come Francesco Casagrande e Mirko Celestino che, dopo aver abbandonato l’asfalto, sono entrati nella nazionale di Mountain Bike. Celestino ne è oggi addirittura il Commissario Tecnico.
Questi passaggi sono probabilmente figli di esempi internazionali ancora più eclatanti e mi riferisco a Michael Rasmussen e Cadel Evans che, da campioni del mondo Mountain Bike, hanno raggiunto l’apice agonistico su strada. L’australiano ha persino trionfato in un Mondiale e in un Tour de France!
Come non ricordare infine Bradley Wiggins che ha fatto della polivalenza la sua caratteristica peculiare, in grado di fargli vincere su strada un Mondiale crono, un’Olimpiade crono ed un Tour de France, e su pista ben quattro Ori Olimpici e sei Mondiali!
Il futuro della multidisciplinarietà
Il muro culturale oggi deve essere definitivamente abbattuto e non si può più far finta di niente quando i più forti ciclisti contemporanei hanno nel loro background radici che attingono da ogni specialità. Peter Sagan, Wout van Aert, Mathieu van der Poel, Egan Bernal, Caroline Ferrand-Prevot, Jolanda Neff e, non ultimo, Elia Viviani stanno dimostrando come la multidisciplinarietà rappresenti oggi non più un valore aggiunto bensì una conditio sine qua non per il raggiungimento di obiettivi di altissimo livello.
È auspicabile pertanto che d’ora in avanti possa cambiare la metodologia del lavoro specifico e la teoria dell’allenamento grazie ad una maggiore sinergia fra le diverse specialità che possa far sì che ci sia un incremento di transfer d’informazioni fra gli addetti ai lavori e gli atleti stessi.
E cosa serve per mettere a frutto la multidisciplinarietà? Strutture d’eccellenza in cui allenarsi, sicurezza in strada e trainer visionari come il nostro Stefano La Sala.
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