Passo Maloja, Sankt Moritz e Bernina in bici da corsa
Dopo lo straordinario racconto della salita al Monte Barro, lascio di nuovo la parola a Davide Zeno Ferrari per un nuovo strepitoso racconto.
Questa volta, il giro è più impegnativo, 2 mila metri di dislivello, ma lo stile di pedalata è sempre a metà tra lo scanzonato e il trasognante.
Passo del Maloggia – San Maurizio – Passo del Bernina (cioè Maloja, Sankt Moritz e Bernina)
Capitoli:
La salita verso Chiavenna
Inizia il giro
La salita al passo Maloja
Sconfinamento in Svizzera
Benvenuti in Engadina
Pranzo a Sankt Moritz
La strada del Bernina
La picchiata verso Tirano
Si torna a casa: sono ricco
1° agosto 2020
Organizzazione: dormire a Milano la sera prima, portandosi dietro la bici da salita e il bagaglio. Appuntamento in Stazione Centrale al binario del treno per Colico alle ore 8.00. Sveglia alle 6.30 per doccia, colazione, allestimento bici, controllo gomme, rifornimenti, raggiungere la stazione, fare i biglietti…
Dopo la doccia comincio già a disidratarmi.
Il pasto più importante è sempre la colazione, e a maggior ragione quando scali le montagne in bicicletta. Per questo motivo non ho fatto la spesa la sera prima e mi accontento di latte di soia con miele e biscotti, caffettino, yogurt con marmellata, due pesche (sic!). Neanche le scorte nascoste del coinquilino tornato alla città natale aiutano… La salita per il passo Maloja comincerà verosimilmente alle 10.30/11.00 e di sicuro devo prevedere una seconda colazione in stazione.
Uscire così presto e vedere Milano che si sveglia piano, già mezza svuotata dalle ferie, è una bella esperienza. E infatti subito cercano di uccidermi con camion, parcheggi creativi, vetri da baldoria serale. Dovrei sempre tenere allenata la faccia e il tono da Aldo quando grida “Assassino!” (se non ve lo ricordate il film è Chiedimi se sono felice, la bici un modello da turismo, e Aldo indossa mutandine da donna con il pizzo).
Questa volta il compagno di salita è Gian, detto “lo smilzo”, bici full carbon Specialized Expert con strane appendici tipo triathlon. I mustacchi che porta ricordano Mark Spitz, o in alternativa qualche film western ambientato in Calabria.
Per questa uscita invece ho scelto la Perondi, alluminio Altec, una volta equipaggiata Dura Ace, guarnitura già modificata dal precedente proprietario in 50 (Miche Supertype) – 34. Ci è voluto un Ghisallo da Bellagio per farmi capire che non la potevo usare così. Probabilmente ha anche bisogno di un cambio sella, troppo a lungo rimandato, cambio gomme e più avanti cambio ruote: la bici di Teseo!
Perondi di Cinisello assemblava repliche di biciclette dei pro con il colori della FDJ ma il suo logo. Portare in giro il suo nome mi ricorda che la mia cittadina non ha prodotto solo trapper.
Lungo i bastioni di Porta Venezia e sul piazzale della stazione ci sono già altri ciclisti, arrivo al binario e il capotreno di Trenord fa la conta degli spazi ancora disponibili. Alla fine, carichiamo le bici nella carrozza di testa già piena.
Con le ultime disposizioni Trenord ha messo non poco in difficoltà il traffico intermodale, ed è stata poi costretta a fare parzialmente marcia indietro dopo le proteste dei pendolari e dei cicloturisti. Ad ogni modo la qualità delle aree adibite al trasporto bici sui treni non è variata. Chi affronta salite in alta montagna normalmente ha mezzi di un certo valore e si premura di non graffiare nemmeno le ruote, per non parlare di cadute accidentali dopo una frenata brusca. Su questo tema non c’è assolutamente attenzione.
La salita verso Chiavenna
Cambiamo a Colico per raggiungere Chiavenna. Mi ricordo questa prima salita con la Kona Penthouse; sono passati già due anni. Era la mia prima uscita semiseria in montagna e anche la prima uscita in bici da corsa: non avevo le scarpe con le tacchette, mi avevano prestato i puntapiedi, neppure avevo un’idea precisa di come cambiare rapporto e nessuna nozione di alimentazione o idratazione.
Avevamo raggiunto Colico con il furgone di Enzo il ciclista, dove avevamo appuntamento con altri della squadra Rodman. Il gruppetto aveva proseguito per qualche chilometro costeggiando il lago di Novate Mezzola sulla ciclabile del Sentiero Valtellina e si era sfaldato man mano.
Infine, a Chiavenna eravamo rimasti in cinque. Pausa caffè alla rotonda e poi inizio della salita. Avevamo mantenuto un ritmo da turisti, con pause frequenti per raccogliere margherite e fare foto alle farfalle (cioè riempire le borracce e rifiatare). Enzo dava il ritmo, consigliava la cambiata, teneva compatto il plotone, fendeva il vento. Durante le pause pucciava prima il casco e poi i piedi nelle vascone delle fonti.
Avevo esaurito le ultime forze psicologiche scalando gli ultimi tornanti del condominio 50 piani detto Maloja. In cima, pane integrale con il formaggio a fette della Coop, che non aveva più una bella faccia: era il panino più buono di sempre.
Avevo imparato molto quel giorno:
- Il ciclismo è un viaggio dentro se stessi, per conoscere i limiti e spingerli oltre.
- Quando si ha fame, tutto è straordinario.
Prima della discesa Enzo mi disse di seguirlo sulle traiettorie, di alzare il piede interno alla curva, di imitare gli sciatori. Il problema è che Enzo ha esperienza anche in MTB, e le mie curve spesso uscivano un po’ troppo quadrate, le frenate troppo ritardate, e l’acciaio del telaio fletteva non poco durante la piega.
Inizia il giro
Tornando nel 2020, arriviamo a Chiavenna, salutiamo Elena la capotreno (spero di rivederti), cerchiamo una fontanella e poi l’attacco della salita. Sciolgo subito una pastiglia di sali in una borraccia perché il sole picchia e mi aspetto di consumare molto, come al solito.
Il fiume Mera pare molto carico d’acqua: nei giorni passati la frana del Gavia si è mossa ancora, e anche in zona Bormio e Livigno hanno segnalato danni alle strade, vento forte e piogge torrenziali. Oggi però il caldo non dà tregua, farfalle di tutte le forme vengono a seccarsi sulla striscia laterale bianca della carreggiata, prati si alternano a borghi, capannoni e negozi.
So che la salita è lunga e tengo il mio ritmo lasciando scomparire lo smilzo dietro la curva successiva. Non vediamo tantissimi ciclisti, forse sono più i centauri sulle moto, e anche il traffico di automobili e camion è gestibile.
Ci sono diverse scritte cubitali sull’asfalto: non seguendo il ciclismo della televisione non so dire a chi appartengano i nomi, così posso fuggire dalla fatica inventando gare podistiche invece di gare su due ruote.
La salita al passo Maloja
Ogni tanto Gian mi attende e ci ricongiungiamo (grazie!): il momento di godersi il paesaggio e lasciar perdere del tutto chilometri, velocità, caldo spezza fiato e salita arriverà più avanti. Per il momento cerco di non annoiare il mio compagno di viaggio. Vediamo un gruppo in MTB che attraversa il ponte sotto di noi per raggiungere l’altra sponda del fiume. Gian si rallegra di evitare il tappo e rallentamento che potevano causare, io saluto altri che mi avrebbero sorpassato in salita cantando, in impennata sulla ruota davanti, con una sola mano come Peter Sagan.
Sulla rotondona leggiamo i cartelli St. Moritz, Passo MALOJA 23 e Confine di Stato CH. Resetto il mio computer mentale, come facevo a metà dei 200 mt delfino da giovane. Contare le vasche non è del tutto diverso da contare i km in bici. Passiamo la dogana facendo ciao alle guardie di entrambi gli stati, mini rampa in discesa e galleria in curva. Sembra di essere nel circuito di Montecarlo, e invece…
Sconfinamento in Svizzera
Incrociamo il primo distributore AGIP dopo il confine, con architetture Svizzero-brianzole (il cemento è tipico e molto riconoscibile). Villette aziendali promettono spaccio di vini e fanno salire un po’ di acquolina.
Deviamo dalla strada principale per evitare una brutta galleria, ma troviamo un bel borgo con un alto ponte in pietra sul fiume. Hanno messo un bello scorcio proprio dove transita l’autobus sulla corsia singola e ci stringiamo sul parapetto per lasciare il passaggio.
Le casette e gli alberghi ricordano qualche film di James Bond con Roger Moore e finalmente importuno la prima signora svizzera con la passione del giardinaggio.
Questi scorci di verde e montagne ripagano di tutto, ho i brividi sulle braccia. Morso ad una barretta e sorso d’acqua. Riprendiamo la strada maestra all’uscita della brutta galleria e Gian mi stacca.
C’è una brevissima strettoia sotto ad uno sperone di roccia ad arco, questo mi ricorda che dopo poco c’è una fontana dove servono acqua fresca molto buona. Tanto Gian non può vedermi: rifornimento rapido, mi sciacquo braccia e collo e riparto. Vorrei anche fermarmi a fare due foto al Palazzo Castelmur ma rimando mentalmente al prossimo viaggio in solitaria.
Anche se le bandiere ai balconi non lasciano dubbi sulla nazione, “Casa Comunale” è scritto precisamente in italiano su un basso edificio lungo e grigio a due piani. Questo tipo di sfumature tra diverse regioni non mi impensieriscono in Italia, ma qui è come se ci fosse un non detto, un qualcosa che non mi torna. Dovrò tornarci e studiare meglio la questione.
Passo un ponte di cemento con due archi, diversi pascoli con conifere giganti a delimitarli, una bella segheria e falegnameria con un cognome italiano. Dalle finestre si intravedono i tubi per l’aspirazione della segatura e sogno ad occhi aperti di trasferirmi in un posto di montagna e avere finalmente un laboratorio vero.
Il picco sembra farsi sempre più vicino, il caldo non molla e sulla tuta nera comincio a vedere i segni del sale seccato. Non siamo scesi mai sotto i 30° per le prime due ore. Sorpasso qualche ciclista fermo a bordo strada e saluto. Gli autobus di linea hanno l’abitudine di suonare il bitonale Yodel ai tornanti più difficili: deve essere il loro modo di apparire simpatici e compensare il suono duro del Tedesco.
La telecamera mi ha lasciato molti km fa, e allora ripiego sulla ripresa video dal telefono. Sono ancora nella fase di test dell’attrezzatura: dovrò organizzarmi con il cambio batteria e il cambio scheda così da non perdere i momenti salienti.
Supero un gruppo di mucche al pascolo lungo la carreggiata: masticano tranquille, tanto sono svizzere e hanno il fieno in banca. L’ennesimo Ferrari mi supera: anche se molte auto sportive scaricano i cavalli, la strada non è molto trafficata e in genere sono tutti rispettosi delle distanze di sicurezza.
Il percorso spiana, anche se le pendenze non sono mai state impegnative, e recupero qualche metro su Gian.
Passo una fermata dell’autobus a Casaccia dove ricordo di aver mangiato l’ultima barretta due anni prima: dopo pochi metri ci saremmo fermati per una seconda pausa, a pane e salame, gentilmente offerti da un nonno locale.
Mando la foto a Enzo, ma del nonno e soprattutto del pane e salame, questa volta, nessuna traccia.
Uscendo dal borgo la salita aggredisce con poca pendenza in più; aggiungo un paio di denti dietro e riparto.
È il tratto finale e più impegnativo, ma sento che anche la pausa rifornimento si avvicina. Ancora qualche curva dopo il cantiere della chiesa di San Gaudenzio di Casaccia e si apre la vista sul condominio Maloja.
Due anni fa l’avevo affrontato con il morale più alto sapendo che la fatica era finita e cominciava il ritorno in discesa; ora invece si apre l’incognito di Engadina, Sankt Moritz e passo del Bernina.
Sono completamente docciato dal sudore e mi metto lo smanicato sopra alla maglietta. La temperatura non è bassa e lo strato in più protegge dal poco vento. Ci accoglie il profumo di salamella.
Benvenuti in Engadina
I laghi di Engadina sono uno spettacolo color smeraldo, mi ricordano le descrizioni di Thoreau del lago di Walden. Le rive appena sotto la carreggiata sono frequentate da ciclisti in MTB, famiglie che prendono il sole, qualche pescatore. L’acqua lascia intravedere il fondo sassoso per pochi metri, ma sfuma rapidamente in un profondo turchese.
Vengo superato da un Branduardi con la chioma grigia e riccia che fluisce da sotto il caschetto: “Alla fiera dell’est, per tre soldi, una Perondi mio padre comprò”.
Sui laghi ci sono diversi camping e si pratica il sup. Qualche estremista ha la barca a vela: di vento non ne sento eppure le poche presenti si muovono piano, credo seguendo la corrente.
Ci inoltriamo tra i boschetti, qualche strettoia mi impensierisce, e infatti ad un certo punto la singola corsia a senso unico alternato è bloccata dalla polizia per un incidente in moto.
Pranzo a Sankt Moritz
Passiamo Maloggia, Sils, Silvaplana, arriviamo a San Maurizio.
Potrei sbranare un brontosauro alpino e invece mi accontento di un tramezzino pomodoro e mozzarella, con un sentore e colore di basilico.
Il barista del locale vista strada (una bella strada) è cortese ma non sorride troppo: poi capisco quando pago che stava aspettando il momento giusto.
Un gruppo di silenziosi tedescofoni seduti al tavolino all’ingresso stridono con l’idea di bar italiano. Tutti calmi, tutti tranquilli, uno di loro zampetta con le stampelle e il gesso alla gamba sinistra, ma nel profondo sai che aspettano. Come il barista. (Nel gruppo è compresa anche una bella ragazza, tatuaggi, magra, alta, capelli lunghi scuri, eyeliner, anche lei attende…). In Italia è facile aspettarsi nei bar una situazione più pittoresca, alcolici, rumori e Bud Spencer che dà lezioni di pugni in testa.
In genere nelle cittadine che abbiamo passato abbiamo trovato poche persone, e sono solo le 13.30 del pomeriggio quando ci alziamo dal tavolino. Dobbiamo sbrigarci per salire gli ultimi km fino al Bernina e ridiscendere in picchiata verso Tirano.
La strada del Bernina
L’ascesa al Bernina si potrebbe sfiorare con la corona grande, se solo fossi serio, e invece sono un chiodo: Gian vola e scompare nonostante io tenga ancora un ritmo allegro.
Passo sotto ad un ponte ferroviario, credo sia la linea del Trenino Rosso del Bernina, poi brevi gallerie. Arriviamo dopo alcuni km ad una rotonda e svoltiamo a destra in direzione Bernina.
È assai strano vedere come il flusso dei ruscelli non segua regole certe, a volte ci segue, a volte ci avversa, e intanto si palesano alte vette rocciose coperte dal bianco dei nevai.
La temperatura è stabile sotto i 30° ormai da Maloggia e si pedala con tutt’altro spirito.
Passo diverse costruzioni alte sei piani tutte chiamate Chesa Romana, o Chesa Tais o Chesa Islas, costeggiando un ruscello e più lontano la ferrovia. Boschetti abbastanza radi di conifere rinfrescano il tragitto, e anche il sole ormai scompare dietro le nuvole. Ho qualche pensiero per l’orario dell’ultimo treno e la meteo, ma pare sia ancora tutto regolare.
A una decina di km da Sankt Moritz vengo superato da un gruppetto di smilzi francofoni, tre ragazzi e una ragazza. Poi vedo una scena brutta: un altro più avanti in maglietta rosso Svizzera ha entrambe le pedivelle rivolte verso il basso. Non c’è modo di ripararle (si tratta del sistema Fulcrum Torq e ripensandoci credo si sia scollata la boccola interna alla pedivella sinistra). Proviamo a rintracciare il suo gruppo più avanti via telefono, ma alla fine trova un passaggio su una monovolume di una comitiva di italiani. Buona strada!
Qualche mucca placida ai lati, poche persone in bici, prati, sassaie, alcune auto parcheggiate sotto agli impianti delle funivie, il percorso del trenino sempre visibile. Effettivamente incrocio tre convogli, due in discesa e uno in salita, con le ultime carrozze gialle scoperte e piene di turisti fotografanti.
Il paesaggio è più spoglio, le nuvole già più compatte fanno sentire la loro minaccia con qualche gocciolina lasciata cadere come avvertimento. Non sono più in Svizzera ma davanti a me scorgo Gandalf il grigio e le tre montagne Celebdi, Fanuidhol e Caradhras.
Manca poco alla vetta: mi faccio superare da una coppia di mezza età su bici elettrica (facile così!), passo un tratto di strada dove hanno appena raschiato l’asfalto (fatica), e finalmente raggiungo lo spiazzo dove Gian mi attende (dice da un quarto d’ora, ma poi ritratta a mezz’ora sogghignando).
La picchiata verso Tirano
È finita la fatica, mi cambio le maglie nel venticello del parcheggio, ora solo concentrazione e traiettorie. Mancano 35 km a Tirano e sono quasi le tre del pomeriggio. Il tempo è passato senza che mi rendessi conto.
Non controllo quasi mai la velocità in discesa ma un’occhiata fugace mi dice 60 km/h. Scoprirò dopo che Gian è arrivato anche a 70 km/h.
Con aria di sfida saluto una ragazza in tenuta da cicloturista ad un semaforo di un senso unico alternato, ma non ci mollerà mai più. Credo fosse una locale, una tipa tosta.
A metà della discesa un vento caldo di Sardegna ci investe risalendo il versante del Bernina, ci fermiamo per togliere l’ultimo strato e proseguiamo a rotta di collo. Superiamo tutti i boschi, i burroni, le rampe senza guardare troppo la fauna selvatica e ritroviamo il Poschiavino in frazione San Carlo.
La strada spiana e riprendiamo a pedalare con buona lena, superiamo il Mirolago di Poschiavo e riprendiamo la discesa.
Gioco per qualche km con una coppia di giovani ragazze su una 500 grigia, mi superano ma non tengono la mia velocità e le riprendo. Rallento e attraverso i binari del trenino rosso che tagliano la carreggiata, appena prima della fermata Campocologno, un nome che evoca distanze da casa più ridotte, antenne della tv e tangenziali. È il bentornato in Italia: poco dopo infatti ripassiamo il confine.
Si torna a casa: sono ricco
Siamo arrivati appena in tempo! Biglietti online e birretta al bar fronte stazione: hanno un nuovo modello di frigo che tiene in caldo le birre dentro a bottiglie apparentemente fredde. Ripiego sull’acqua microfiltrata del sindaco.
Fortunatamente Trenord non si smentisce e arriva con una decina di minuti di ritardo, giusto il tempo di prendere una birretta vera con patatine al bar opposto e scattare una foto come provino per il prossimo spot dell’Amica Chips.

La patata tira… a Tirano.
Il vagone bici del ritorno è vuoto, e anche il vagone passeggeri ospita solo pochi ragazzini. Mi accorgo di aver bucato o pizzicato nel piazzale della stazione e mi appresto a cambiare la camera d’aria sul treno.
Il controllore, che per comodità chiameremo Winchester, accompagna alcuni di loro alla porta e sento che già l’aria è elettrica. Poi chiede il biglietto all’ultimo cugino rimasto a bordo: ne segue una spiacevole discussione su carabinieri, multe, furbizia, validation of your ticket. Pare di intravedere una croce appesa alla catenina intorno al collo, che sporge dal bavero della camicia sbottonata. È un lavoro per certi versi duro e se lo fai da molti anni ti cresce la corazza.
Mi addormento sereno fin quando Gian mi avvisa che siamo arrivati ad Arcore e gli rispondo che andrò a salutare il nostro Presidente.
I 2000 metri di dislivello della giornata non si sentono più quando scendo dal treno e raggiungo finalmente casa in tempo per cena.
Mi restano tutti i flash della giornata, le immagini della natura, il sudore, le fontane, il dolore, il vento caldo in discesa: sono ricco!
Bel giro, potresti condividere la traccia?
Grazie